Gramsci, il carcere e la scrittura come resistenza

Rifondazione Comunista ricorda Antonio Gramsci

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 82Antonio Gramsci muore il 27 aprile 1937,  a Roma,   presso la clinica “Quisisana”.  Era  stato colpito da emorragia cerebrale il 25, lo  stesso giorno in cui gli era stata recapitata la dichiarazione del Tribunale di sorveglianza di Roma che eliminava ogni misura di sicurezza nei suoi confronti.

 Nel primo scritto di Togliatti successivo alla scomparsa di Gramsci,  compare un accenno -  in verità  non più  ripreso nei numerosi articoli e saggi a lui  dedicati  successivamente -  a un decesso non dovuto a cause naturali,  ma alla mano del regime che lo aveva privato della libertà  più  di dieci anni prima (“Morte sospetta, avvenuta proprio nel momento in cui per i carcerieri si profilava la liberazione della loro vittima. Non morte,  ma ignominioso delitto,  e deve essere vendicato”,  “In memoria di Gramsci” , ora in “Scritti su Gramsci”,  Ed. Riuniti, 2001, p. 45).  Questa tesi viene ripresa da alcuni studiosi, fra i quali, con dovizia di argomentazioni,  Giacomini. Va però ricordato che Tania Schucht,  la cognata di Gramsci,  figura  di straordinario altruismo e forza di volontà,  a lui vicina  fino agli ultimi istanti,  ad essa  non fa cenno. La coincidenza rimane comunque inquietante.

Gramsci, segretario del  PCd’I , era stato arrestato l’8 novembre del 1926,  illegalmente: era infatti ancora  tutelato dall’immunita’ parlamentare. Lo stesso giorno vennero arrestati gli altri deputati comunisti Ribolla, Alfani, Borin, Ferrari,  Marinelli, Piceni e Srebnic (cfr. S. F. Romano, UTET,  1961, p. 539).  Dopo il fallito attentato di Bologna  a Mussolini da parte del giovane Zaniboni (catturato e linciato sul posto dalle camicie nere) sul Paese si era abbattuta un’ ultima ondata repressiva che avrebbe trasformato definitivamente il governo fascista in regime: eliminazione della  residua libertà  di stampa,   soppressione dei partiti politici,  introduzione della pena di morte,  istituzione del Tribunale Speciale. Dopo una breve permanenza nel carcere di Regina Coeli, in regime di isolamento assoluto, a fine novembre viene assegnato  al confino di Ustica, dove ritrova Bordiga,  con il quale organizza una scuola per i confinati.  Nel gennaio del 1927,  in seguito a mandato di cattura spiccato dal Tribunale militare di Milano, viene recluso a san Vittore e quindi,  nel maggio del ’28,  trasferito di nuovo  a Roma in vista del processo. Quello  contro il gruppo dirigente del Partito Comunista,  nel 1928, è il primo grande processo politico celebrato presso il  neo-istituito organo, il cosiddetto processone.  Il tribunale viene presieduto da un generale,  gli altri cinque giudici sono tutti consoli della MVSN. Alla sbarra, insieme a Gramsci,  Terracini,  Scoccimarro,  Roveda ed altri venti imputati,  tra dirigenti (tra i quali diversi ex deputati)  e militanti del PCd’I. Otto coimputati sono  latitanti,  fra di loro Palmiro Togliatti. La condanna per Gramsci è  pesantissima:  20 anni e 4 mesi,  identica a quella comminata a Scoccimarro e Roveda. Ancora più  grave quella inflitta a Terracini,  ritenuto il principale organizzatore del partito: 22 anni e 9 mesi.  L ’anno dopo un altro illustre imputato viene a trovarsi al cospetto dei giudici in camicia nera. Si chiama Sandro Pertini ed è  accusato di  attività volta alla “ menomazione del prestigio dello Stato e attività  nociva agli interessi nazionali”. Subito dopo aver ascoltato la sentenza che lo condanna a 10 anni e 9 mesi di reclusione, riesce a gridare “Viva il socialismo,  abbasso il fascismo!”. Nel corso del processo di Roma,   Gramsci aveva tenuto un contegno molto misurato, interrotto solo da quella frase profetica (che non figura agli atti, ma venne riportata dal suo avvocato) che sarebbe passata alla storia: “Voi fascisti porterete l’Italia alla rovina,  a noi comunisti toccherà  salvarla”.  Lo stesso intransigente antifascismo declinato,  nel  momento critico della condanna,  con accenti  diversi. L’orgogliosa rivendicazione di Pertini rispondeva al bisogno di testimoniare – per riprendere una parola a lui assai cara- una fede,  ridare prestigio a un movimento,  come quello socialista,  che dalla bufera reazionaria del fascismo era uscito battuto,  diviso e in preda a contrasti dilanianti.  Il vaticinio di Gramsci,  appartenente a una forza politica che con il suo tributo di centinaia di militanti aveva già  conquistato il   ruolo di capofila nella lotta contro la dittatura,  rappresentava in  primo luogo uno sguardo lanciato verso il futuro. La luce della speranza nell’ora più  buia.  Quando si incontrano a  Turi, Gramsci e Pertini sono due uomini piuttosto isolati:  Pertini in quanto unico recluso socialista,  Gramsci perché  in attrito con la maggioranza del collettivo  comunista del penitenziario,  schierata con convinzione a favore della linea della svolta del ’28-29  ( con cui il Comintern dichiara concluso il  periodo  di stabilizzazione relativa del capitalismo e proclama l’inizio di una nuova fase rivoluzionaria) e  piuttosto insofferente nei confronti del suo antidogmatismo  e del suo senso critico. Tra i due prigionieri si forma una solida amicizia. Alla partenza di Pertini per Pianosa Gramsci gli regalerà  la Storia d’Europa nel secolo XIX  di Benedetto Croce.  

A Turi Gramsci rimane  oltre quattro anni.  Il tempo della prigionia significa per il  rivoluzionario sardo soprattutto attività  di  scrittura e lettura,  agevolata dal  prezioso ausilio dell’amico Piero Sraffa ( comunista senza tessera,  professore di economia a Cambridge), che gli apre una linea di credito illimitata  presso una libreria di Milano. Entrambe tuttavia,  lettura e scrittura,  non rappresentano un dato scontato,   bensì  una conquista faticosa e sempre precaria. Inizialmente può contare su sole due lettere quindicinali  esclusivamente per i parenti stretti ( la  moglie,  la madre,  la sorella Teresina,  la cognata  Tatiana Schucht. Quest’ultima ricopia le lettere di Gramsci indirizzandole a Piero Sraffa,  il quale,  a sua volta, le trascrive e le fa pervenire a Togliatti). Le lettere sono importanti anche perché ,  fino all’autorizzazione a poter disporre del materiale per la scrittura in cella,  concessa nel ’29,  ad esse saranno affidati i resoconti  e le considerazioni sulle letture fatte, che talvolta assumono  la forma di piccoli saggi. E’ attraverso le lettere che Gramsci comunica il  primo progetto di ricerca dei Quaderni, con i ben noti riferimenti all’intenzione di voler scrivere qualcosa fur  ewig.

Il ricorso alla riflessione e alla scrittura non assumerà mai i contorni dell’evasione dalla realtà. Il tempo trascorso in reclusione rappresenta per Gramsci la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi.  Il carcere lo vive  con una visione  materialistica,  senza alcuna concessione perciò  alle retoriche dell’idealismo che esaltano la libertà dello spirito libero nel corpo prigioniero. Le lettere sono dense di riferimenti,  anche crudi,  alla situazione del corpo  incatenato, alle sue trasformazioni molecolari, al progressivo decadimento delle funzioni vitali. L’importanza della dimensione corporea dell’essere umano non è un elemento inedito nell’opera gramsciana e tuttavia nella produzione carceraria assume tratti più  espliciti, leopardiani si potrebbe dire, pensando a quell’esigenza di liberazione totale che il poeta di Recanati aveva prospettato,  soprattutto nelle Operette Morali, in contrapposizione al corpo oppresso dai pesanti condizionamenti della società  della Restaurazione e dalle sue sovrastrutture ideologiche.  Come le sofferenze fisiche,  anche  quelle psicologiche vengono riportate  senza infingimenti. Drammatico in particolare,  in alcuni frangenti, il rapporto con la moglie  Giulia  (“Forse resterai lontana”,  il titolo editoriale del loro carteggio), che si può  sintetizzare nei termini di una costante asimmetria psicologica, nel senso che quando Gramsci,  non ancora piegato dalle numerose malattie,  ricerchera’ un contatto più  intenso con la compagna,  questa manifesterà  una sorta di blocco,  che riguarderà  sia la frequenza delle lettere che l’ ampiezza di apertura dei propri stati d’animo. Allorquando Giulia,  recuperato un equilibrio accettabile,  farà sentire la propria voce con  maggiore regolarità,  sarà  Antonio a  ritrarsi,   concentrando le residue energie nell’ accorata richiesta alla moglie di venire in Italia,  ponendo termine così a un rapporto meramente epistolare che gli appare progressivamente sempre più  inadeguato e straniante e che pure resterà l’unico fra i due per l’intero periodo della prigionia. In generale,  la  scrittura stessa vede valorizzata  nella particolare condizione carceraria la propria dimensione fisica e materiale. Se la storia della letteratura (e la saggistica)  è ricchissima di quaderni, quelli gramsciani sono quaderni in senso proprio, strappati all’ ottusità  burocratica delle direzioni carcerarie e salvati fortunosamente e rocambolescamente in più  di una circostanza,  quaderni solcati da una scrittura fitta che nelle varie stesure,  è  essa stessa storia,  materia viva,  tranche de vie. Alcune pagine,  solcate dai freghi tracciati per  correggere il testo,  sembrano restituire visivamente l’immagine di parole che attraversano le sbarre della cella alla ricerca  della libertà.  “Nei quaderni del carcere,  sia pur in forma frammentaria e provvisoria, Gramsci  compì  un lavoro di raccolta di appunti, di schede, e di abbozzi preparatori, che dovevano sboccare,  secondo un disegno originario, nella compilazione di una grande opera sulla storia degli intellettuali italiani, e nella elaborazione di una visione filosofica, che affrontando i temi posti in discussione dalla coscienza politica contemporanea, facesse il punto e segnasse un progresso  rispetto alle concezioni filosofiche che avevano dominato in Italia e in Europa nella sua giovinezza,  e ancora vi dominavano  negli anni che Gramsci  trascorreva in carcere. In questo senso le lettere e i trentadue quaderni scritti nel carcere costituiscono un notevole documento della cultura italiana nel periodo tra le guerre. La critica alle deformazioni economicistiche, meccanicistiche e fatalistiche della “ filosofia  della prassi”,  secondo la denominazione che Gramsci dà al marxismo,  per sfuggire alla censura carceraria,  e che egli intende  come la forma moderna e attuale dell’ umanesimo,  destinata a diventare la “ ‘base etica del nuovo Stato’; l’elaborazione e l’approfondimento del concetto,  basilare, dell’egemonia,  e cioè di una fase statale  in cui,  sotto la direzione della classe operaia e degli elementi progressivi della società,  ‘tutte le sovrastrutture devono svilupparsi pena il dissolvimento dello Stato’; la delucidazione del carattere non nazionale-popolare della cultura e della letteratura italiana ,  e del cosmopolitismo degli intellettuali italiani,  continuatori del cosmopolitismo medievale,  per affermare la necessità  di un nuovo tipo di intellettuale che dalla  ‘tecnica lavoro giunga alla tecnica-scienza,  e alla concezione umanistico- storica,  senza la quale si rimane specialista e non si diventa gruppo dirigente’,   le pagine sul Machiavelli nelle quali è  sviluppata una teoria del Partito politico di avanguardia e quelle sul materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce,  dove la sua critica del pensiero  filosofico idealistico italiano e in particolare di quello del Croce, assume un posto analogo a quello del pensiero di Marx e di Engels rispetto alla filosofia classica tedesca:  sono i grandi temi e i punti essenziali e salienti del suo pensiero critico più  originale” (  S.F. Romano,  ‘Gramsci” , UTET, 1965, pp.578 -579). A questa tematica amplissima,  bastevole comunque a rendere appena l’idea di una notevolissima  latitudine di interessi,  ne aggiungiamo qui una,  perché  forse quella che con più  efficacia offre l’idea  della funzione politica dei Quaderni: l’ analisi del fascismo, argomento naturalmente non nuovo, che aveva raggiunto una significativa sintesi con le Tesi di Lione di inizio 1926. Gramsci,  come individuo, non esita a misurarsi con la trattazione della natura dell’ antagonista che lo ha ridotto in cattività,  senza abbandonarsi a recriminazioni né cedere alla tentazione del silenzio e della rimozione.  Il fatto è  che egli si considera davvero un combattente caduto prigioniero in guerra,  come scrive,  non retoricamente,  alla madre il 24 agosto 1931.   Lo studio del fascismo significa perciò  continuare questa lotta con altri mezzi,  quelli,  limitatissimi,  che la condizione di prigioniero gli riserva e  nel contempo serve a chiarire a se stesso il senso della propria battaglia e di una sconfitta che crede  (e  non può non essere così), momentanea;  cercare,   in altri termini,  di evidenziare  i punti di forza e quelli di debolezza del’ avversario,   disvelarne i tratti più  marcatamente legati alla dimensione nazionale e rinvenirne,  nel contempo,  quelli suscettibili di estensione. Eccolo sviluppare,  ad esempio,  un’ acuta analisi del corporativismo, visto come fattore di stabilizzazione del regime,  perché ,  quanto meno nel breve periodo, in grado di ampliarne il consenso,  ma nello stesso tempo come possibile agente  di crisi,  per il suo suscitare nelle masse aspettative di effettiva  partecipazione alla vita economico- sociale del Paese,  che l’ involucro autoritario non consente invece  di soddisfare.  Approfondire le contraddizioni interne del fascismo,  insomma,  e  quel che ciò  può  comportare per la stabilità   del regime: questo l’obiettivo di Gramsci. Realismo di fondo,  consapevolezza della debolezza dell’ antifascismo all’epoca del proprio arresto:  quale possa essere stata l’ispirazione originaria di questo  “approccio”  gramsciano al tema, esso denota la consapevolezza della necessità  di una battaglia di lungo periodo. 

 E’ quindi una scrittura di resistenza, quella che anima  i Quaderni:  resistenza umana, politica, culturale. Di resistenza Gramsci parla nella fase iniziale della sua detenzione  ( lettera a Giulia  del 19 novembre 1928),  e in quella finale della propria esistenza ( ancora a Giulia, 25 gennaio 1936).  Una scrittura che muta rispetto al periodo giovanile. Giocoforza,  per taluni aspetti. Il formidabile polemista,  l’autore di icastici e acuminati  apoftegmi,  l’autore di invettive che  inceneriscono tronfi intellettuali  di provincia così  come improbabili  glorie della patria, il creatore di memorabili calembours, lo smascheratore della nefandezze degli apparati di Stato e di ogni sorta di opportunismo e di opportunisti, cede il passo all’ artefice di forme più  riflessive e di un pensiero lungo  che non solo non rinuncia,  ma diventa emblema di una moderna ragione critica,  sfrondata però  di quella vis polemica alla costante ricerca di un antagonista di cui disvelare nefandezze o contraddizioni.

Gramsci lotta con tutte le sue forze per riguadagnare la libertà  al fine di poter continuare la battaglia politica, oltre che per riconquistare una dimensione di integrità  umana. Nel contesto asfittico del carcere ogni azione si carica di un senso strategico, il che lo porta ad applicare su se stesso la  categoria della previsione che  aveva già  sviluppato nella fase precarceraria e che rappresenta uno dei tratti peculiari ella sua elaborazione. L’immanente e oppressiva,  quantunque non sempre visibile presenza di un  avversario che ha il vantaggio di padroneggiare costantemente  l’iniziativa, rende inevitabile per il prigioniero innalzare le proprie difese nei confronti del mondo esterno,  adottare ogni accorgimento atto  ad aggirare la censura sempre incombente, che condiziona non solo la manifestazione di considerazioni politiche,  ma anche quella dei sentimenti personali (“L’affetto è  un sentimento spontaneo che non crea obblighi perché  è fuori della sfera della moralità. Può  essere suscitato irrazionalmente e potrebbe esserlo,  per esempio,  se da parte mia ti scrivessi lettere infiammate. Potrei scriverle,  naturalmente, in tutta sincerità, ma non voglio;  le mie lettere sono ‘pubbliche’, non riservate a noi due e la coscienza di ciò mi obbliga ferreamente  a limitare l’esplosione dei miei sentimenti,  in quanto si esprimono in parole scritte in queste lettere” ( lettera a Giulia, 7.12.31).

Quella della censura però  non era un’esperienza nuova per Gramsci.  Quasi tutta   la sua attività  giornalistica si era  infatti svolta durante e immediatamente dopo il primo conflitto mondiale, allorquando la legislazione speciale di guerra aveva consentito ai prefetti di intervenire con mano pesante nei confronti della pubblicistica pacifista,  cosiddetta “disfattista”, o comunque critica verso l’esecutivo;  una censura che,   soprattutto dopo Caporetto,  si era fatta assai occhiuta e devastante.  Alcuni articoli gramsciani pubblicati sul  Grido del Popolo  o sull’edizione piemontese dell’”Avanti!”  erano stati talmente manomessi  dall’ intervento censorio da essere ridotti a brandelli incomprensibili,  lacerti privi di spina dorsale.  Nulla di nuovo sotto il sole quindi? Non proprio. Non solo per la natura in parte diversa della censura fascista e carceraria,  di tipo preventivo e destinata a interferire gravemente con la sfera più  privata e personale del prigioniero,  ma perché  la stessa censura lo pone nella condizione di farsi egli stesso rigoroso controllore della propria comunicazione.  In una delle ultime lettere a Iulca   (novembre 1936) parlerà così  un modo di scrivere ‘carcerario’ ormai completamente introiettato.

 L’isolamento annulla,  tra l’altro, la possibilità  di misurarsi,  anche polemicamente, come era sovente avvenuto nel corso della precedente attività  pubblicistica,  con un interlocutore concreto. “Sarà  perché  tutta la mia formazione intellettuale è  stata di ordine polemico,  anche il pensare ‘disinteressatamente’ – scrive il 15 dicembre 1930 a Tatiana – Ordinariamente mi è  necessario partire da un punto di vista dialogico o dialettico,  altrimenti non sento nessuno stimolo intellettuale”.

GLI ULTIMI ANNI

Il 19 novembre 1933,  a causa delle gravi condizioni di salute,  può  lasciare,  anche grazie a una grande campagna internazionale promossa da “Soccorso Rosso”, il carcere di Turi,  per essere trasferito, dopo un breve soggiorno nell’infermeria del carcere di Civitavecchia,  presso la clinica privata del prof. Cusumano a Formia. Qui scrive poco,  a causa di una condizione psico-fisica che egli stesso definisce di spaventosa stanchezza. Per lo più  si dedica alla sistemazione delle note dei Quaderni  redatte negli anni precedenti, premettendovi delle introduzioni, come fa con il quaderno dedicato all’americanismo e al fordismo. Per il resto le sue giornate trascorrono all’insegna di una forzata routine, interrotta da qualche passeggiata all’esterno della clinica. Il 25 ottobre 1934 ottiene la libertà  condizionale.  Solo il 24 agosto dell’anno successivo lascia però la struttura di Formia per raggiungere la clinica “Quisisana” di Roma.

Molto si è  scritto sui rapporti tra Gramsci e il partito,  soprattutto in relazione agli infruttuosi tentativi di liberazione e alle vicende dell’ultimo  periodo della sua esistenza.  I fatti ci dicono che nel corso dell’ultimo incontro con Piero Sraffa ( marzo 1937),  Gramsci affida all’  amico un messaggio per i compagni,   con la parola d’ordine dell’assemblea Costituente. E sappiamo quale importanza avrà tale obiettivo all’indomani della liberazione,   per tutto il campo dell’ antifascismo. I fatti ci dicono anche che, pochi giorni prima di spegnersi, egli inoltra,  sempre con l’aiuto dell’ amico, istanza di espatrio in Unione Sovietica,  certo per ricongiungersi alla famiglia,  per conoscere il secondo figlio che non aveva mai visto,   ma del tutto consapevole,  naturalmente,   delle implicazioni politiche insite in questa scelta. Gramsci muore come aveva vissuto, da rivoluzionario e da comunista. Il resto,  per usare un’espressione cara a Benedetto Croce,  è industria del vuoto.

Luigi Caputo

Partito della Rifondazione Comunista – Comitato Regionale Campania

Source: www.irpinia24.it