Ponte sullo Stretto

Il rischio sismico è più alto di quanto raccontano le carte

ANGELONE

Lo Stretto di Messina rappresenta una delle aree a più elevato potenziale sismogenetico del Mediterraneo. La sua storia geologica e sismica parla chiaro: faglie attive e capaci, anche in ambito marino, hanno prodotto in passato eventi devastanti come il terremoto e il maremoto del 28 dicembre 1908, con magnitudo stimata intorno a 7.1.

È importante sottolineare che tale magnitudo non rappresenta necessariamente il limite massimo possibile. In uno scenario geodinamico complesso come quello dello Stretto, con numerose faglie attive e capaci (FAC), non si può escludere la possibilità di terremoti di energia ancora superiore.

Si tratta di contesto tettonico complesso, dove il rischio non è un’ipotesi remota, ma una realtà che impone valutazioni ingegneristiche accurate e prudenziali.

Gli studi e le registrazioni accelerometriche degli ultimi decenni in Italia centrale forniscono un monito preciso: durante il terremoto di Amatrice del 24 agosto 2016, la stazione AMT ha registrato un’accelerazione orizzontale prossima a 0,87 g, mentre in alcuni casi la componente verticale ha sfiorato 1 g, valori già di per sé estremamente elevati per opere complesse. Nella stessa sequenza, alcune stazioni hanno riportato picchi orizzontali vicini o superiori a 1 g e, in casi particolari, come alla stazione MZ01, si è arrivati a registrare fino a 1,5 g, un dato molto discusso in letteratura ma che dimostra come, in condizioni di particolare vicinanza alla faglia, si possano raggiungere livelli di scuotimento ben oltre le attese normative.

Anche se in Italia le accelerazioni orizzontali “pulite” superiori a 1 g restano rare, ma non impossibili quando ci si avvicina al fronte di rottura. Contesti internazionali analoghi hanno evidenziato raggiungimenti fino a circa 2 g, e nulla vieta che, in uno scenario sismogenetico come lo Stretto, possano verificarsi intensità comparabili.

A fronte di questi dati, emerge un punto critico: la normativa vigente, nel definire l’azione sismica di progetto, utilizza valori di accelerazione mediati e probabilistici che non sempre riflettono i picchi realmente osservabili in area epicentrale.

Numeri alla mano, le registrazioni sismiche mostrano chiaramente che, in caso di evento reale, le accelerazioni al suolo possono eccedere di molto i valori assunti in fase di progetto, esponendo a rischi imprevisti anche opere conformi alle attuali prescrizioni.

A questo si aggiunge un aspetto troppo spesso sottovalutato: la componente verticale del moto sismico. L’esperienza italiana dimostra che, mentre lontano dall’epicentro questa componente raramente crea problemi strutturali rilevanti, in prossimità della sorgente può combinare effetti gravi, alterando la risposta dell’opera in modo imprevedibile.

I dati delle sequenze recenti dell’Italia centrale mostrano verticali prossime a 1 g, capaci di generare sollecitazioni eccezionali sugli elementi strutturali, sugli appoggi e sui vincoli.

Per il Ponte sullo Stretto, la possibilità di trovarsi in un’area epicentrale rende imprescindibile considerare in maniera rigorosa e non marginale anche questa componente.

Infine, esistono due approcci principali nella valutazione della pericolosità: quello tempo-indipendente, che considera ogni evento potenzialmente indipendente dal precedente, mantenendo la probabilità alta anche subito dopo un terremoto e, in presenza di una rete complessa di faglie capaci – come accade nello Stretto – appare particolarmente prudente poiché non si basa sull’idea che una faglia si “scarichi” e resti rilassata per un certo periodo; e quello tempo-dipendente, che regola la probabilità in funzione del tempo trascorso dall’ultimo evento, risultando oggi, comunque molto severo nel contesto dello Stretto in cui l’ultimo grande terremoto risale al 1908.

In questa prospettiva, l’approccio tempo-indipendente non è affatto meno cauto, anzi lo è in modo diverso e forse ancor più concretamente prudente quando molte faglie attive concorrono al rischio attuale.

Il Ponte sullo Stretto deve essere progettato tenendo conto non solo dei parametri normativi, ma delle evidenze scientifiche e delle osservazioni reali: accelerazioni massime realisticamente raggiungibili, effetti della componente verticale in area epicentrale e la complessità della rete delle faglie capaci, che impediscono di considerare ogni evento come parte di un ciclo di rilassamento.

E c’è un punto conclusivo che non può essere taciuto: la conoscenza geologica non si limita alla mappatura delle faglie o alla stima del potenziale sismogenetico in base all’assetto strutturale e alle dinamiche crostali. Deve comprendere il censimento dettagliato delle FAC e soprattutto l’analisi accurata di tutti quei fattori che concorrono alle amplificazioni locali del moto sismico, perché è lì che lo scuotimento si trasforma in accelerazioni al suolo capaci di compromettere la sicurezza di qualunque struttura. Senza una modellazione rigorosa del sottosuolo e di un intorno sufficientemente esteso, ogni valutazione rischia di essere illusoria e fuorviante. Solo così si può parlare di vera prevenzione e di un’infrastruttura all’altezza delle sfide del territorio in cui sorgerà.

È bene sottolineare che quello dello scuotimento al suolo rappresenta solo uno dei molteplici aspetti della sfida tecnologica legata alla realizzazione del Ponte sullo Stretto. Quest’area impone ulteriori e specifiche attenzioni di natura ingegneristica, geotecnica, ambientale e logistica, che saranno oggetto di approfondimenti dedicati.

Source: www.irpinia24.it