Dalla vita al libro, dal libro alla vita: una storia di mare e d’amore
Un'occasione qualunque per scoprire una storia, la potenza di un libro che scuote i ricordi: è la storia di Marina.
Che cos’è un libro, se non la riscrittura dell’esperienza? Che cosa, se non la trasfigurazione di storie vive, di carne e di sangue, in storie morte, di carta e d’inchiostro? Non esiste scrittore che non faccia appello alle proprie vicende e che, da uomo, non racconti con le proprie le vicende degli uomini.
Ero alla libreria Mondadori di Salerno per la presentazione di “Io, te e il mare” della giovanissima Marzia Sicignano che, con un debutto che è già un successo su larga scala, afferma: “Questo libro ti appartiene se hai amato fin troppo, se hai amato anche quando era difficile, se hai scoperto quanto l’amore possa renderti debole, impaurita e poi veramente viva; ti appartiene se quando ti innamori è un casino perché non capisci più niente, se hai scoperto che quando ti manca qualcuno niente ha veramente senso; ti appartiene se hai tante cose da dire, ma non riesci a trovare le parole“. Ha vent’anni e parla col linguaggio dei giovani quest’autrice, che dalla finestra di Instagram si è affacciata sul mondo della scrittura per entrarci a pieno titolo e con tutti i meriti; semplice, diretta e delicata nella prosa scorrevole, sembra avere il dono della verità ed è per questo, forse, che nel suo racconto pare specchiarsi la storia di tutti, quella più autentica, comune e condivisa che si conosca: l’amore esplosivo dei due protagonisti, travolti da una tempesta di passioni e sentimenti, cui il mare fa da sfondo.
Ero in platea e ascoltavo l’autrice rivolgersi al suo pubblico; di fianco a me sedeva una giovane donna di bell’aspetto, ma cupa in volto, sofferente e con gli occhi malinconici; a un secondo sguardo mi accorsi che, discretamente e con poche lacrime, piangeva. Indubbiamente la storia di Marzia le raccontava, in parte, anche la sua. E fu lei a volerne parlare, “Ho voglia – mi disse – di liberare qualche emozione“. Marina, così si chiamava, esprimeva con gli occhi e con i gesti la necessità impellente di condividere, di far conoscere.
“Aveva la gentilezza dei gesti semplici – cominciò – la dolcezza negli occhi e una sensibilità delicata, fine e fortissima che faceva percepire dal contatto piuttosto che dalle parole e dai grandi discorsi. L’inizio fu molto prima di quanto io ricordi, precedente alle mie percezioni e del tutto involontario. Da lui avrei poi saputo che su quella spiaggia, mentre io leggevo, ascoltavo musica e fissavo il mare, mi guardava, mi guardava e mi aspettava ogni giorno; fu proprio quando mi accorsi di lui che per me ebbe inizio l’estate. Ricambiavo i suoi sguardi per simpatia e curiosità, lusingata dall’attenzione che mi rivolgeva, e poco a poco mi sorpresi a cercarli, ad aspettarli, a guardare io per prima, ad osservare senza essere vista”.
E’ incredibile come anche i luoghi più consueti e quotidiani si carichino di significati speciali, come si saturino di emozioni quando si legano alle storie. A Marina brillano gli occhi quando nomina il mare, ne parla con riverenza, quasi, disegnando nella mia mente la danza gentile di piccole onde di seta e componendo per le mie orecchie la melodia delicata di quei riccioli spumosi di nulla nel lamento morbido dell’acqua.
“Ci stringemmo la mano un giorno - lei continua e io sono già ipnotizzata - da lontano mi vide e senza muoversi mi venne incontro. La mia mano destra nella sua mano destra, come se in quell’istante ci stessimo presentando, come se quello dovesse essere l’inizio. Mi disse che ogni giorno mi aveva pensata, che mi aspettava mi disse”. Sorride Marina, abbassa gli occhi e sorride, come se quella prima dichiarazione, urgente e disarmante, nel ricordo ancora la imbarazzi, ancora la emozioni. “Da quel giorno cercammo continuamente occasioni per trovarci da soli un momento, per parlare davvero, per sorriderci liberi, anche se liberi non eravamo affatto”. E’ una vera e propria confessione quella che Marina ha voluto affidarmi e io l’ho accolta con tutta la disponibilità e la partecipazione possibili, perché raccontarsi, a volte, fa sentire redenti. “Ci sono storie che non hanno morale - questa è la sua consapevolezza - perché nascono e crescono nel peccato, un peccato che è dato dalla coscienza di volere il “non dovere”. E io vedevo quanto fosse egoista quella passione, che mandava all’aria gli equilibri, divorava la ragione e generava il caos, facendo dominare l’istinto che ignora ogni limite, ma in me era ormai definitivamente vinta la resistenza del pudore e dell’etica”.
Una storia nata e maturata in segreto, fatta di singoli, sporadici momenti rubati e necessariamente nascosti all’ufficialità della vita conosciuta, che continuò a vivere ben oltre la stagione del mare “con l’ostinazione e l’incoscienza di inebriarci di quel dolce veleno, consapevoli di essere storia di un presente senza futuro, grati, forse, e maledetti per questo”. Un senso di colpa rassegnato, ma ancora pungente si legge nelle parole sincere di Marina, preda di una tacita rivolta con quanto di razionale ora prevale e che l’accusa di tradimento, immoralità e furto.
“Non mi aspettavo che capitasse e nemmeno tu te l’aspettavi – mi disse un giorno al telefono.
Che capitasse cosa? – gli chiesi io.
Che capitasse l’amore – mi rispose.
Erano quelle le parole che aspettavo, quelle che, più o meno inconsciamente, avevo sempre sperato fosse lui a pronunciare finalmente. Mi colpirono il cuore e la faccia nella stessa frazione di secondo, con una potenza che si estese allo stomaco e mi fece vacillare le gambe. Rimasi in silenzio, come sempre quando l’emozione è così forte da confondere i pensieri e immobilizzare la lingua. Lui non invase quel silenzio, rimase in attesa finché non fui pronta. Sentì il respiro ammutolito ricominciare a funzionare, ma non poté accorgersi che il nodo alla gola, scioltosi, mi aveva allagato gli occhi.
Sì – gli dissi – io me l’aspettavo”.
C’era in quella risposta il non detto di tante settimane vissute celando il sentimento spontaneo di chi, amando la carne, ama necessariamente anche l’anima e l’uomo.
“Le persone vanno e vengono nella vita di qualcuno, lasciando in quell’esistenza un segno più o meno profondo – continuò lui dopo che ebbe saputo – So che tu resterai, nonostante tutto, tu resterai”. Fu, quello, l’abbraccio più intenso e definitivo che ci avesse uniti fino ad allora, benché in quel momento non potessimo nemmeno sfiorarci. Avrei voluto fermare, trattenere e stringere quell’istante per non lasciarlo andare; nel cuore avevo un frastuono di battiti felici, sul volto i segni prematuri di una nostalgia presentita e bruciante”. Una nostalgia che oggi Marina porta stampata in viso al minimo accenno di un ricordo “perché – finisce – è di nuovo estate e io ho la carne a brandelli“.
Le ho promesso che avrei raccontato.
di Eleonora Fattorello