Intervista a Luciano Melchionna: quando il teatro è vita!

Il Papi di “Dignità Autonome di Prostituzione” racconta la sua passione per il teatro, aprendosi per il suo pubblico con una calorosa e genuina disponibilità

melchionna 1Luciano Melchionna non ha bisogno di presentazione. Il suo nome rievoca a tutti gli appassionati di cinema e teatro il successo di cui meritatamente gode. Ma, il successo non arriva mai all’improvviso. Infatti, nel suo caso è frutto di tanto lavoro, che gli ha consentito di emergere e dimostrare il suo valore come attore, regista (teatrale e cinematografico), sceneggiatore e drammaturgo.

Questa “schizofrenia” artistica rappresenta un importante strumento espressivo, che gli consente di raccontare tutte le sfumature emotive che l’animo umano è capace di contenere e che solo la sua sensibilità di artista è in grado di cogliere e narrare. Gli occhi sono lo specchio dell’anima. Gli occhi sono la porta attraverso cui Luciano entra e indaga nella mente e nel cuore dei personaggi, di cui racconta. Ma questa volta sono gli occhi di Luciano ad essere la porta attraverso cui è possibile penetrare in una piccola costellazione del suo universo interiore. Il tempo è poco e le prove teatrali ne richiedono molto, con dedizione e fatica, ma gli occhi di Luciano dicono di poter raccontare più di quanto il tempo di questa intervista permette. Questa chiacchierata con Luciano va presa come una delle pillole che caratterizzano il suo ormai celebre spettacolo: Dignità Autonome di Prostituzione (DAdP), in scena a Napoli al Teatro Bellini fino al 15 marzo. In questo spettacolo si riversa tutta la bravura del genio artistico, creando un format molto particolare, che ottiene una valanga di premi e un enorme successo di pubblico.

Da dove nascono le tue storie e le emozioni che ti spingono a creare?

Inizi con una delle domande che amo di più in assoluto, perché il pubblico si emoziona e richiede tantissimo i miei testi, però difficilmente mi chiedono da dove nascono. Ho fatto un manifesto per questo, che è l’apertura dello spettacolo da quest’anno e si chiama “Occhi dentro agli occhi”. Incontro le persone, anche per strada. Cammino per strada e incontro degli occhi con i quali entro in empatia e allora comincio ad inventare delle storie su quegli occhi e su quelle persone. Spesso mi è capitato di vivere delle esperienze in prima persona e di raccontare la storia dal punto di vista dell’altro da me. Per esempio “Tra le pietre” è una storia che nasce così. È stato un incidente di percorso abbastanza scioccante per me e dopo un paio di mesi mi sono ritrovato a scrivere come se io fossi l’altro, che per strada mi ha incontrato e mi ha aggredito e ho cominciato a raccontare il suo punto di vista. Attraverso quegli occhi gelidi, quell’atteggiamento, ho provato a risalire alla fonte e non dico che l’ho perdonato, però ho provato a capire e a far riflettere il pubblico sulla pericolosità di tutte queste bombe inesplose che ci sono in giro per tanti motivi. Tante frustrazioni che iniziano dall’infanzia, dai genitori, dalla scuola…

Come nasce l’idea di “Dignità autonome di prostituzione”?

È nata nel 2007, ma già tre anni prima io parlavo di prostituzione. È una cosa che mi inquieta molto, fa parte sempre di quegli occhi di cui parlavo prima. Sono stato ad Amsterdam, perché c’era il mio primo film ad un festival. Ho visto le vetrine con alcuni amici, in modo goliardico. Arrivi ed è tutto rosso e molto divertente, molto teatrale, molto affascinante. Poi, guardi gli occhi e ti rendi conto di che vita fanno. Allora mi sono divertito a giocare sul fatto di sceglierlo. Se io dovessi avere questo talento probabilmente sceglierei di prostituirmi, perché no? Ma se qualcuno mi costringe è un altro discorso. È con Elisabetta Cianchini che inventiamo il format. Nei tre anni precedenti, continuavo a fare quelle pillole (come io chiamo i monologhi) anche sulla prostituzione. Mi sono trovato in uno spazio che gestisce anche lei insieme ad altri soci. E mentre lei faceva altro, io avevo messo in una stanzetta una piccola ragazzina mezza nuda che raccontava che era lei che aveva violentato un uomo di 50 anni, che era lei che aveva poi deciso di lasciarlo, che era lei che aveva incominciato e che era tutta colpa sua. E da lì ti usciva fuori il cuore a pezzi. Con Betta ci siamo detti perché non facciamo diventare questo una serie di stanze con le quali ricreare un bordello. Però la dignità è fondamentale, però in teatro non c’è autonomia e resta la prostituzione. Quindi con Betta abbiamo siglato questo format, che poi è diventato uno spettacolo completamente mio, scritto da me, pensato da me. Ci tengo perché è mio figlio, lei ha fato il suo di figlio, vero. Io ho fatto il mio virtuale, che amo tantissimo!

DAP nasce nel 2007, quindi siete ormai all’ottavo anno. Com’è cambiato lo spettacolo nel tempo?

Lo spettacolo è nato nel 2007, di nascosto. Io sono molto particolare. La mia carriera è molto più lenta di quella degli altri, perché a me non piace il suono della fanfara prima ancora di avere la sostanza. È una cosa, invece, che nel nostro ambiente va molto di moda. Cioè si costruiscono prima le operazioni, si pubblicizzano e si sponsorizzano e poi si crea, se poi viene una schifezza, intanto hai fatto comunque qualcosa. No, io no. Io nel mio piccolo mi sono seduto sul divanetto di quella scuola di teatro e di musica e ho cominciato a lavorare con alcuni attori. Quindi è nato in una dimensione molto artigianale, piccola. Questa dimensione l’ha mantenuta, ma il livello di spettacolarità è cresciuto in maniera incredibile. Poi c’è la cerimonia di apertura e di chiusura, che ogni volta reinvento. Ogni volta costruisco delle cerimonie di apertura e di chiusura che raccontino sia la situazione dell’artista in Italia e la sua evoluzione sia quello che per me, in questo momento, è importante. Quest’anno apre un’artista che rappresenta l’Italia cantante, senza orchestra, senza ballerini, senza nessuno. Un’Italia che tenta disperatamente ancora di ammaliare i propri ‘sudditi’, chiamiamoli così. Ma viene vilipesa e aggredita dai miei artisti in lacrime. Diciamo che è un’Italia-transatlantico guidata da uno Schettino. Però io faccio tutto questo solo per stimolare la riflessione, poi ti prendo e ti porto per mano, chiudendo con la ‘festa della Vita’. La gente, che entra nelle stanze con noi, si prende questi ‘schiaffi’, questi ‘pugni’, perché i monologhi vanno a toccare delle corde profonde. Poi, alla fine, finisce non in bellezza perché i pericoli e le trappole restano, ma nonostante tutto festeggiamo questa “cavolo di vita”.

Dopo otto anni, lo spettacolo continua a riscuotere un enorme successo di pubblico, secondo te perché?

Mi sono interrogato tantissimo su questo. Io dico sempre che non solo continua a riscuotere un enorme successo ma la sensazione chiara ed evidente è che cresce. Cresce proprio l’affluenza del pubblico. È una roba incredibile: se tu lo fai oggi e lo rifai dopodomani, cresce. Non c’è il pericolo, come in altri spettacoli, della sovraesposizione. Mi sono interrogato tantissimo su questo e ti dico solo che io prima di andare in scena ogni sera riunisco tutti e dico loro che mi trema la pancia, che per me è un debutto e che non sono assolutamente sicuro del successo di quella serata, che sta a noi ogni sera. Io credo che uno dei segreti al di là dell’aver buttato all’aria le poltrone e il teatro “punitivo”, aver liberato il pubblico che non viene responsabilizzato e tirato dentro per essere deriso, ma viene semplicemente attivato, andando in giro, visitando ogni dove, cantando, ballando, ridendo, ma anche piangendo. Perché sfatiamolo questo mito: il divertimento non è soltanto risate, le emozioni sono il divertimento. Fatto tutto questo, mi dedico alla meritocrazia, per cui tu vieni e sei sicuro che le pietanze sono quelle scelte come in un menu di un ristorante di altissimo livello, dove i piatti sono veramente cucinati con passione e con amore, con ingredienti meravigliosamente freschi, buoni. Oltre a tutto questo, c’è la sensazione chiara di dover dare sempre di più. Mi sento come una mamma meridionale, devo dare sempre più pietanze. Non posso dare giusto giusto, non esiste,  e non è detto che piaccia. Quindi faccio tutto con l’apprensione di una mamma.

Non posso esimermi dal farti la domanda canonica che solitamente si rivolge a un regista del tuo calibro: Che cosa significa per te fare teatro?

Sai che è difficilissimo rispondere a questa domanda senza rischiare di essere banali? Perché a me appena me lo domandi, e lo dico sinceramente, mi si riempiono gli occhi di lacrime e ora le ho dovute trattenere e frenare, perché per me è la vita. Non c’è dubbio, è la mia vita il teatro!

Cosa ripaga la tua dedizione?

Il successo sicuramente. La felicità delle persone e il fatto che le signore di 75 anni ti abbraccino uscendo e ti dicano: “mi hai fatto sognare”, con occhi che ti raccontano che non sognano da un bel po’. I giovani, che ti dicono che avevano deciso di non andare mai più a teatro e che adesso invece cominciano a farlo, perché hanno capito che il teatro non è solo quella roba che ti fanno vedere a scuola, non è solo quella roba punitiva. Tutte queste cose sono importanti, ma la cosa che mi ripaga di più e vedere i miei artisti e mio figlio ‘brillare’. È una cosa che mi riempie il cuore, sento proprio il sangue che mi schizza nelle vene.

Essere stato attore per tanti anni è stato utile nel tuo ruolo di autore e regista?

Non è utile, è fondamentale secondo me… il mio ruolo di regista nasce proprio da una insoddisfazione come attore. In questo momento sono molto addolorato perché quello che io considero il mio maestro e spero che non si offenda lì dove è andato, Luca Ronconi, non c’è più e per me è stato un duro colpo. L’entourage, il livello, lo staff e tutta la situazione che ruotava intorno a lui, mi fece scappare. Con lui ho imparato l’ira di Dio, però a un certo punto ho pensato se volevo davvero restare in quella situazione e in quel contesto. Un conteso di un tipo di spettacolo e di teatro che io non amo molto, fatto di competizione, di invidia, di opportunismi. Mi sentivo abbastanza circondato. Sono fuggito e ho creato questo spettacolo dove sono tutti amici e fratelli e laddove dovesse esserci qualche tensione io intervengo e saluto chi porta competizione e negatività. Per me è fondamentale, si deve riuscire a stare insieme con il piacere di farlo, anche perché hanno tutti il loro spazio. D’altra parte in tutti i lavori che facevo, essendo io un attore di talento (nessuno più lo sa ma io ero ‘bravino’), i miei registi si accontentavano e un giorno ho deciso di non accontentarmi né come attore, né come regista, né come spettatore. Una cosa che chiedo sempre nei miei seminari e nei miei corsi, avendo diretto anche qui a Napoli l’Accademia del Teatro Bellini, sia ai partecipanti che al mio pubblico, è di non accontentarsi. Basta! Non se ne può più, io voglio essere stimolato e portato al massimo delle mie possibilità, non con quello che già ho. E fanno quasi tutti così, che noia!

Sei un artista complesso ed eclettico, che si è espresso sia a teatro che al cinema, con “Gas” e “Ce n’è per tutti”. Presumo che cinema e teatro richiedano linguaggi differenti, quale senti più congeniale per esprimere la tua arte?

Richiedono necessariamente linguaggi differenti perché si utilizzano strumenti diversi, però alla fine, stringi stringi, il lavoro che tu fai è un lavoro di visioni, di immagini. Ed è lo stesso lavoro visionario che faccio anche a teatro. Ma io prima di dedicarmi al cinema ho preteso di fare l’aiuto regista e l’ho fatto con Ricky Tognazzi per “Il Papa buono”. Ho cercato di imparare e di rubare il più possibile per capire in che cosa consistesse quel nuovo mezzo e ho cercato di lavorare con quello. Però, ho preparato i miei attori come preparo gli attori di DAdP, cioè li preparo fino a un certo punto per lasciargli una freschezza, come dire senza ingabbiarli troppo come faccio a teatro. Detto ciò, il più congeniale non c’è, perché quando tu ti dedichi a quello che ami, in qualsiasi forma, godi. C’è un vantaggio. Tutti dicono “che bello il teatro e l’emozione dal vivo”. D’accordissimo. Però, al cinema rimane impresso, resta lì! Mentre a teatro, ogni volta che riprendo devo metterli tutti in prova. Ovviamente parlo degli artisti storici con cui riprendo ogni anno lo spettacolo e trovo nuovi monologhi. Niente rimane fissato perfettamente e allora ricomincio tutto daccapo… e le mie rughe aumentano in maniera esponenziale!

In quale progetto futuro ti vedremo impegnato?

Guarda ce ne sono diversi. DAdP sta avendo delle offerte dentro dei palazzi che vogliono diventare delle case chiuse, che è quasi imbarazzante. È emozionantissimo. Però è top secret. Sta avendo delle richieste incredibili e non solo in Italia. Quindi io sono veramente lusingato. In più ho con un’altra produzione due progetti in ballo. Uno sarà probabilmente un mio nuovo testo, che si chiama “L’amore per le cose assenti”, che non vedo l’ora di fare. L’altro, invece, è un testo spagnolo, anche questo ancora top secret. E poi c’è un progetto di un grande italiano che vuole assolutamente lavorare insieme a me ma pure questo te lo lascio top secret. Ho anche nel cassetto pronto, perché si sta per sviluppare, il nuovo film, che avevo un po’ messo da parte dopo tante vicissitudini per dedicarmi al mio figlio DAdP. Però c’è pronta una chicca che non vedo l’ora di mettere su.

 E noi non vediamo l’ora di vedere

 In chiusura ricordo nuovamente che Dignità Autonome di Prostituzione resta in scena al Teatro Bellini di Napoli fino al 15 marzo. È uno spettacolo che mette in scena la vita, nelle sue diverse sfumature, in cui è impossibile non immedesimarsi, facendosi cullare dalle emozioni che suscita, grazie all’estro di un uomo che vive per il teatro. Consiglio a tutti di precipitarsi a vederlo e, data la grande affluenza di pubblico, di provare a munirsi in anticipo dei biglietti.

 di Davide MARENA

Source: www.irpinia24.it