Coordinamento Provinciale: ” Un senso alla nostra storia ”
Per contribuire criticamente alla conferenza programmatica del PD Irpinio, alcuni dei ragionamenti sull'Irpinia
Avellino – Il Rapporto SVIMEZ 2014 evidenzia due grandi emergenze: quella sociale con il crollo occupazionale, e quella produttiva con il rischio di desertificazione industriale, che caratterizzano ormai per il sesto anno consecutivo il Mezzogiorno.
“Nel caso del Mezzogiorno la peggior crisi economica del dopoguerra rischia di essere sempre più paragonabile alla Grande Depressione del 1929. Gli effetti della crisi si sono fatti sentire anche al Centro-Nord, e non certo per colpa del Sud; ma anche l’area più forte del Paese rischia di non uscire dalla crisi finché non si risolve il problema del Mezzogiorno,in quanto una domanda meridionale così depressa ha inevitabili effetti negativi sull’economia delle regioni centrali e settentrionali. Dopo il fallimento delle politiche di austerità che hanno contribuito all’aumento delle disparità tra aree forti e deboli dell’Ue, è giunto il momento di mettere in campo una strategia di sviluppo nazionale che ponga al centro il Mezzogiorno, e sia capace di coniugare un’azione strutturale di medio-lungo periodo fondata su alcuni ben individuati drivers di sviluppo tra loro strettamente connessi con un piano di “primo intervento” da avviare con urgenza: rigenerazione urbana, rilancio delle aree interne, creazione di una rete logistica in un’ottica mediterranea, valorizzazione del patrimonio culturale”.
Mettere ad “incipit” del nostro contributo alla Conferenza Programmatica del PD irpino questo passaggio del Rapporto Svimez, serve a rompere un primo limite, un recinto, entro il quale per anni il ragionamento delle forze politiche e dello stesso PD sull’Irpinia è stato confinato, quello del provincialismo e della rinunzia a ragionamenti di più lunga lena.
L’Irpinia non è isola; né felice, né infelice; è parte di un Mezzogiorno dissanguato tutto dalla crisi che mostra sul suo corpo ferite che sono le stesse a Reggio Calabria e a Matera, a Palermo e a Napoli, ad Avellino ed ad Aversa. L’idea di un territorio, di territori che si salvino da soli è demagogia e velleitarismo. Allora, prima ancora di avviare un qualsiasi ragionamento sull’Irpinia che vogliamo, occorre mettere mano ad almeno tre nodi:
1) che la ri-partenzadei Paesi deboli,fuoriuscendo dalle logiche della austerità, diventi priorità europea;
2) che il Mezzogiorno cessi di essere considerato peso, ma diventi la risorsa su cui puntare per il rilancio della domanda interna e dell’intero apparato produttivoitaliano;
3) che la Campania ritrovi le ragioni di un pensiero comune e visioni regionalistiche in cui le vocazioni dei territori, le possibilità di tutti di contribuire ad una rinascita comune siano sperimentate senza viete gerarchizzazioni di ruoli.
Per dirla ancora con lo Svimez, “come già fatto da molti paesi europei, occorre anche in Italia, in tempo di crisi, riscoprire il ruolo fondamentale dell’industria come elenco catalizzatore per la crescita. Occorre rimettere rapidamente l’industria al centro di una nuova strategia di sviluppo, che privilegi non solo gli interventi di contesto, ma soprattutto misure per il sostegno diretto e di promozione del processo di industrializzazione… [con una] politica industriale nazionale … adeguatamente articolata a livello territoriale, … [a cui] affiancare anche una politica regionale, specifica per il Sud, avente per obiettivo lo sviluppo del sistema industriale meridionale. Una politica che nel complesso privilegi misure attive e fortemente selettive; sostegno alle grandi imprese attive nei comparti produttivi con importanti vantaggi competitivi; sostegno alle piccole e medie imprese, destinando a quelle meridionali una quota prefissata degli interventi del Fondo Italiano di Investimenti per le Pmi, specifici fondi di private equity, canali di finanziamento per il credito all’export dedicati al Sud e inserendo nei POR delle regioni del Sud per il prossimo ciclo 2014/2020 misure aggiuntive a favore dei Contratti di rete; prolungamento temporale del Piano per il Sud 2013-2015 ed estensione delle misure a favore dell’export a tutte le Regioni del Mezzogiorno, non solo quelle della Convergenza; introduzione di misure di fiscalità di vantaggio per gli investimenti soprattutto esteri.
Noi pensiamo che questo sia l’impianto di ragionamento che manca a tutto il PD e che responsabilità grave del PD meridionale sia quella di aver dato per scontato che la “questione meridionale” sia un vecchio armamentario ideologico rassegnato ai libri di storia invece che nodo politico, questione sociale ed economica aperta, l’approccio alla qualeè risolutivo per le possibilità di fuoruscita dalla crisi del Paese.
Una nuova industrializzazione motore della ripartenza del Sud e dell’Italia
L’Italia ha affrontato del tutto impreparata la sfida della globalizzazione. Scontiamo la vittoria ideologica dei feticisti del “mercato” e dell’idea che persino la sinistra ha fatto propria che non spetti allo Stato organizzare le condizioni di contesto che indirizzino le scelte produttive.
Altri paesi europei, persino quando governati dalla destra, hanno scelto in maniera diversa, concentrando le loro attenzioni nel definire politiche (in materia di scuola e università, di ricerca, di sostegno alle nuove tecnologia, di attrezzamento materiale ed immateriale dei territori)per mettere il loro sistema-paese nelle condizioni di collocarsi nei gradini alti del confronto concorrenziale, peraltro sostenendo, anche ben oltre le normative comunitarie, la loro industria nazionale e favorendone il posizionamento nel mercato globale.
L’Italia, al contrario, ha assistito impotente al trasferimento all’estero del suo maggiore complesso industriale, della sua compagnia di bandiera aereonautica, di pezzi essenziali del suo prestigioso apparato produttivo persino nell’ambito del made in Italy. L’idea berlusconiana di una Italia fatta di mare, sole, mandolini e spaghetti ed un mercato del lavoro occupato da camerieri, ha fatto più proseliti di quanto non appaia, peraltro senza apprezzabili risultati,allorquando si sono depressi gli investimenti sui beni culturali, sull’ambiente, sulle infrastrutture sportivo-ricreative a supporto del turismo, sull’ammodernamento delle aziende turistiche, sulla capacità di offrire un prodotto di qualità a costi concorrenziali.
La strada per recuperare è lunga e tortuosa, e passa per il Mezzogiorno.
Non si tratta solo di invertire radicalmente rispetto alle quote di investimenti pubblici a questo destinati, dopo che abbiamo toccato il fondo con gli ultimi riparti (in “era-Renzi”) che assegnano al Sud persino meno della quota per la quale il Sud concorre nelle imposte della fiscalità generale. Si tratta di ripensare il ruolo del Sud ed alla sua misconosciuta funzione strategica tra Mediterraneo e Balcani. E’ il punto di snodo decisivo per “ricollocare” la funzione produttiva di Campania, Puglia e Basilicata ed è anche, in via derivata, la ricollocazione delle province interne della Campania in funzione strategica.
Questo è il senso del considerare la Napoli-Basi non una mera infrastruttura di mobilità, ma l’intelaiatura di un “corridoio” di passaggio, di trasferenza, ma soprattutto di lavorazione e trasformazione di prodotti.
La difesa della Irisbus a Flumeri, la stazione Irpinia e la piattaforma logistica, il ripensamento dell’agglomerato industriale ufitano e di quello di Lacedonia, il collegamento dei raccordi viari con la Contursi-Grotta o sono funzionali ad un disegno di un’area che attraverso nuovi meccanismi di incentivazione selezionante attraggano investimenti industriali e per servizi alle imprese, o rischiano di essere mere strategie difensive, o di spesa pubblica finea se stessa.
L’agro-alimentare
L’agro-alimentare è già, in Irpinia, ma anche nel Salernitano e nel Beneventano, una corposa realtà produttiva, a prescindere dal grado di integrazione con le produzioni agricole locali, spesso solo declamato e non praticato o praticabile. E’ un tessuto ampio, di buona qualità, che può ricevere un forte impulso da politiche attente e lungimiranti. Ragionare in termini interprovinciali sulle problematiche e sulle potenzialità del comparto è una obbligata scelta di premessa, che può consentire di mettere a sistema preesistenze e agevolare crescita e potenziamenti con politiche di agevolazione fiscale e di sperimentazione di aree “a burocrazia-zero”. Un ruolo particolare è assegnabile alle preesistenze culturali, università come Fisciano,Benevento ela laurea in Enologia ad Avellino oltre agli esistenti centri di ricerca, come quello nostro, del CNR, sull’alimentazione.
Scommettere con strategia innovative su queste potenzialità è peraltro la strada obbligata per un ripensamento del ruolo della città di Avellino, del nucleo industriale di Pianodardine, per immaginare un raccordo, lungo l’asse Salerno-Montoro-Avellino-Grotta delle potenzialità connesse al porto di Salerno con la novità della Napoli-Bari. E’ la strada per costruire un ruolo trainante, da capoluogo, della città di Avellino, verso il resto della Provincia, rompendo un isolamento antico di chiusura dentro le sue funzioni burocratiche e commerciali che la crisi sta deprimendo oltre misura.
Industria, uso risorse ed ambiente
Non è estraneo a questo discorso né un ripensamento sulle politiche di produzione energetica (eolico in primo luogo, biomasse e solare, in secondo) nell’ambito della fascia territoriale a questo particolarmente vocato uscendo da una fase di economia di rapina delle risorse, senza alcuna capacità di costruire indotto sia dal versante di aziende satelliti che da quello di attività di ricerca e sperimentazione di tecnologie avanzate.
E non lo è neppure la verifica delle possibilità di recupero dei “buchi neri” nelle aree ex art.32 attraverso una attenzione particolare ad attività di riciclaggio dei rifiuti che creino occupazione, completino a livello locale il ciclo evitando onerosi trasferimenti, abbiano un effetto indotto sia sulla riduzione di accumuli che sul peso delle tariffe.
Il progetto sperimentale “zone interne”
In questo quadro, il progetto “zone interne” che sceglie l’Altra Irpinia come ambito di sperimentazione, è una occasione straordinaria per verificare modalità di ammodernamento dei servizi (dalla sanità, alla scuola, almeno in partenza) con strategie di valorizzazione delle economie di nicchia su prodotti agricoli di qualità, su sperimentazione di modelli di integrazione turisticacosta-interno, su attività di valorizzazione in senso turistico delle peculiarità ambientali e culturali nostre.
Insomma, una scelta che pone al centro la re-industrializzazione non è nemica di un progetto di valorizzazione di tutte le occasioni attivabili di green economy che il territorio mostri di essere in grado di avviare.
Sull’ambiente
Questo vale anche ancheper le trivellazioni petrolifere, questione che va de-ideologizzata, innanzitutto separando il ragionamento che riguarda le prospezioni di verifica della esistenza, ampiezza e caratteri di eventuali giacimenti da quella che riguarda le attività estrattive che sono, allo stato solo “in mente dei”. Solo un quadro reale di ciò che sta effettivamente nel sottosuolo irpino può consentire una valutazione serena, nostra, regionale e nazionale e valutare se esista un interesse nazionale alla estrazione e come, eventualmente esso possa essere coniugato con quello nostro a non vedere la nostra terra stravolta ed avvelenata.
Nel merito delle trivellazioni di saggio diviene alloraposizione equilibrata e sostenibile la richiesta che esse avvengano con il massimo delle tutele, eliminando ogni qualsiasi rischio ipotizzabile per l’ambiente attraverso le garanzie richieste dagli ambientalisti siciliani per le prospezioni in parchi marini e che hanno trovato accoglimento previste nella risoluzione PD votata dal Parlamento. Queste sembrano essere tali da offrire margini ampi di sicurezza anche per trivellazioni sia in zone sismiche che in aree con presenza di ampie risorse idriche sotterranee.
E’ comunque paradossale che alla attenzione spasmodica rispetto ad un pericolo eventuale (quello delle trivellazioni per le falde acquifere) non ne corrispondauna corrispondente per lo scempio che registra l’uso dell’acqua, quella che la retorica ambientalista designa come la “grande risorsa”.L’intero comprensorio solofrano montorese vede oggi le falde compromesse da un inquinamento da sversamenti chimici che non consente la utilizzazione delle acque né ad uso industriale, né ad uso civile; i fiumi muoiono, per lunghi periodi dell’anno privi di acque sorgive e poco più che fogne a cielo aperto con gli enti acquedottistici che non assicurano il “minimo vitale” mentre il 54% dell’acqua immessa in rete si perde per via e il costo dell’energia per il pompaggio cresce in proporzione geometrica. Ma sono pochi a parlarne e soprattutto pochi, ai livelli istituzionali competenti, a fare la loro parte. Un “grande progetto” a salvaguardia della risorsa idrica è la prima emergenza ambientale a cui mettere mani.
Analogamente colpisce la disattenzione, dei tanti che hanno fatto le barricate contro le discariche, verso il “post-mortem” di Difesa Grande e di Pustarza, così come la disattenzione verso opportunità di riciclaggio dei rifiuti, che sono “scartate” senza giudizi di merito e valutazione dei costi e benefici.
Colpisce ancora che tutta la vicenda della riforestazione sia affrontata solo con l’ottica, per tantissimi versi più che legittima, di assicurare ai lavoratori gli stipendi, ma purtroppo senza che nessuno metta mano ad una proposta risolutiva anche per la questione occupazionale, uno straccio di idea di riutilizzazione di queste energie umane su progetti veri, e non assistenziali, di difesa del suolo dal rischio idrogeologico.
Infine l’Isochimica. La vicenda della fabbrica dei veleni è esemplare di come sia necessario rifiutare sempre opportunità di lavoro incompatibili con la tutela della salute. Abbiamo lavorato in questi mesi per riportare al centro, alla soluzione dei problemi, l’intera vicenda. Oggi esistono tutte le condizioni per uscire dal rimpiattino che ha bloccato tutto per anni attraverso la definizione di un progetto del Comune di Avellino di risanamento e di restituzione dell’area alla città, facendone, ciò che non è stato per il passato, un luogo che dia opportunità di lavoro senza rappresentare pericolo né per chi vi operi né per chi vi abita attorno. Restano aperti nodi dolorosi, sui quali ancora non si intravedono percorsi convincenti: quello del riconoscimento del danno a chi nell’Isochimica ha lavorato respirando amianto e quello della punizione a chi di ciò è stato responsabile, alla direzione dell’azienda, del committente, delle istituzioni preposte alla vigilanza.
I servizi pubblici
L’Irpinia paga un prezzo salato al risanamento dei conti pubblici.La sua struttura demografica con la prevalenza dei piccoli e piccolissimi comuni e quella orografica, con distanze notevoli tra l’uno e quello più prossimo, moltiplicano, dal versante della qualità della vita, i disagi dei tagli. Abbiamo bisogno di mettere mani, dalla sanità all’assistenza dei diversamente abili, dai trasporti ai rifiuti, di sperimentare modelli totalmente nuovi, in qualche modo in grado di fare di necessità virtù, con forme gestionali flessibili, ma comunque capaci di garantire un livello accettabile di prestazioni.
Ciò che appare con ogni evidenza -come anche ultime vicende dimostrano- è che uno dei nemici più agguerriti della funzionalità dei pubblici servizi è l’attenzione spasmodica di politici di prima, seconda e terza fila a mettere mani sulle possibilità di uso clientelare degli spazi occupazionali, a frantumarli e moltiplicarli, per tenere a bada una pressante richiesta di lavoro, una pletora di giovani, illusi poi attraverso contratti precari e con compensi sotto ogni soglia di decenza.
A tutto questo occorre porre mano, stabilizzando quanto più è possibile l’occupazione esistente, evitando di creare nuove sacche di precariato ed introducendo criteri trasparenti e verificabili per le collocazioni. Non riguarda solo i piani di zona sociali o le attività sanitarie; investe la gestione dei rifiuti; quella dell’acqua, dopo anni di promozioni facili che hanno privato l’ACS di personale persino per le letture. Un clientelismo straccione è persino più insopportabile del vecchio clientelismo delle assunzioni alle poste: mettervi mano è oggi un passaggio ineludibile per il risanamento dei servizi con l’occhio rivolto agli utenti, ben prima di riguardarli come spazio di lavoro.
Le nuove povertà
La crisi ha allargato a dismisura le fasce sociali non in grado di assicurarsi condizioni di vita anche elementari.
Guardare a ciò come ad un mero dato statistico, rassegnandosi all’impotenza, non è degno di un Paese civile. Le nuove povertà che si coniugano con quelle antiche e stratificate hanno bisogno di politiche e risorse: a livello locale, come a quello regionale, si tratta di una priorità che impone lo spostamento anche dentro le magre disponibilità della finanza pubblica, di una massa considerevole di denaro. C’è un capitolo ancora aperto dal versante della lotta agli sprechi della politica. Molto si è fatto, ma soprattutto molto fumo è stato sollevato a nascondere aree ancora ampie di sprechi intollerabili. Legare strettamente la lotta per sottrarre risorse agli usi impropri del ceto politico e della politica per destinarli alla lotta alla povertà è il segno più tangibile che possiamo offrire ad una società sempre più lontana dai partiti di quella sobrietà che la crisi impone in primo luogo a chi è chiamato a rappresentare tutti i cittadini.