Da De Sanctis a oggi: Rilanciare il Sud, una sfida necessaria

mastrandea“Tutto si trasforma e qui la trasformazione è lenta. Si animi Monticchio, venga la ferrovia e in piccol numero d’anni si farà il lavoro di secoli.
L’industria, il commercio, l’agricoltura, saranno i motori di questa trasformazione. Vedremo miracoli. Perché qui gli ingegni sono vivi e le tempre sono forti. Questa stessa resistenza che incontro, questa durezza che talora chiamerei rozzezza, questa fedeltà a impegni presi, a parola data, non mi prova che qui carattere c’è? E dove è carattere, c’è la stoffa dell’avvenire. E io non debbo pure fare qualche cosa che affretti questo avvenire? Non è bello consacrare a loro questi ultimi anni della mia vita? Non è mio dovere? […]. Mi sentiranno oggi, e le mie parole saranno seme che frutterà nei loro cuori. E con questi propositi, mi posi a meditare cosa
avevo loro da dire”.
Riflessione ancora estremamente attuale, estrapolata da Un viaggio elettorale, di Francesco De Sanctis, grande critico letterario, politico,
docente e scrittore, che stilò uno straordinario documento sulle condizioni di vita della società meridionale di fine ‘800. Tornato dopo 40 anni nelle sue terre d’origine, documentò dal fenomeno delle alleanze e degli intrighi, che diede origine al trasformismo, al mondo dei proprietari terrieri e dei “galantuomini”, che vessavano le masse contadine oppresse e sfruttate. Nel 1875, dopo aver partecipato alle elezioni dell’anno prima sia nel collegio di Sansevero, dove aveva vinto, che di Lacedonia, dove però furono invalidate, decise di rifiutare il seggio sicuro di Sansevero (contrariamente a quanto gli chiedeva di fare la Sinistra) e partecipare attivamente alla campagna elettorale nel suo collegio d’origine. Ciò che trovò a Lacedonia fu un’aspra lotta tra due gruppi indistinti e mutevoli a livello nazionale (proprio come per molti aspetti le attuali “larghe intese”), ma in aspro conflitto per la supremazia locale. Il suo avversario Soldi, era stato uno strenuo sostenitore dell’amministrazione conservatrice (Minghetti), ma ora, in un impeto trasformista, aveva deciso di sostenere la
Sinistra per accaparrare più voti. Il comitato elettorale della Sinistra che avrebbe dovuto sostenerlo, decise di appoggiare Soldi e così De Sanctis, ribelle nei confronti del comitato elettorale del suo partito, si vide con sorpresa, sostenuto dal prefetto e da un agguerrito sistema clientelare che non apprezzava. La sua candidatura fu appoggiata da un boss di Avellino (Capozzi), il quale prima aveva appoggiato quel Soldi, che però ora diventava suo rivale, poiché ne minacciava l’autorità ad Avellino, città della quale, pur essendo diventato più volte deputato, volle continuare a occuparsi, trascurando la politica nazionale. De Sanctis, si ritrovò così in mezzo a una lotta di potere tra notabili di provincia, proprio lui che attaccava l’affarismo e i carrozzoni talvolta presenti a Roma nella politica
nazionale. C’erano sì uomini integri e politicamente attivi, ma a seguito di scandali clamorosi, crescevano coloro che aderivano all’idea che l’elezione al parlamento fosse “un mestiere da cui si cavino onori e guadagni”, deridendo “coloro che se ne scandalizzano”. De Sanctis aveva notato che questa mentalità si estendeva “dal centro alla periferia come un’infezione”.
In effetti, un allargamento del suffragio che in città poteva rivelarsi fruttuoso, nei piccoli centri poteva favorire “l’avventuriero, il tiranno”.
In quel contesto il “piccolo Catilina, si fa la sua clientela, la educa simile a sé, con la bella regola del mangiare e far mangiare e la gente
viene su disposta a vendere il voto per un piatto di lenticchie”. La candidatura nel collegio di Lacedonia lo portò a compiere un viaggio
elettorale tra gli 800 elettori che intendeva rappresentare come comunità, per sanare le fratture che contribuivano al ritardo di quella provincia, ponendola all’attenzione del governo centrale di Roma. Venne eletto, ma con soli 20 voti in più, questione che considerò umiliante poiché dalla sua terra si aspettava un voto unanime. Quando vi tornò nel 1882, non fu neanche più rieletto, probabilmente perché aveva delegato ad altri la politica militante, non contribuendo ad elevare il livello di coscienza politica dei suoi elettori, pur proclamando la necessità dell’istruzione per tutti come elemento di libertà ed emancipazione. Lavorò molto per sollecitare il
risveglio morale dell’Italia, contro l’indifferenza pubblica. Alla maggioranza della gente però, essere governati dalla destra o dalla
sinistra, importava poco: erano in pochi a conoscere i partiti e a leggere i giornali. De Sanctis insisteva, quasi un po’ utopisticamente, sulla moralità e l’onestà della politica, prendendo le distanze dal modo di fare dei suoi colleghi, transfughi spesso da un partito all’altro. La sua politica di ministro dell’istruzione, che concentrava gli sforzi sulla scuola primaria e su quella rurale più che la urbana, non era popolare, ma oggi le sue idee, compresa quella di investire per migliorare la qualità delle università, a scapito della quantità, vengono rivalutate. Negli ultimi anni della sua vita De Sanctis si spese per il cambiamento e il progresso. Quelli furono anche gli anni in cui si delineò la “Questione meridionale”, così definita dagli studiosi per il persistente divario delle condizioni di vita tra Nord e Sud.
Dopo l’unità nazionale, la gente del Sud sperava che il nuovo governo sanasse miseria, disoccupazione e analfabetismo, potenziando e correggendo le storture del sistema industriale avviato dai Borbone. Così non fu, e ne seguì una profonda delusione. De Sanctis era fermamente convinto che l’Italia potesse diventare più forte riducendo le distanze tra le classi sociali, ma dovette constatare che un elettorato piccolo, preferiva per lo più che le cose rimanessero com’erano. Avvertì i liberali che, se avessero fallito nell’educare ed elevare le masse, un partito di estrema destra avrebbe potuto giungere al potere facendo leva sul loro fallimento. Il primo partito che avesse promesso al popolo una politica di vere riforme sociali, sarebbe divenuto “il padrone d’Italia”, anche a costo della distruzione
della libertà politica. Nel suo viaggio, aveva rilevato la mancanza di impegno per l’educazione popolare delle aree del Mezzogiorno, dove
l’analfabetismo era pressoché totale, e gli analfabeti non avevano diritto al voto, così com’era stato testimone della “lotta sorda tra cafoni e galantuomini”. Qualche anno prima, da governatore di Avellino sotto Garibaldi, aveva visto come in un momento critico, i contadini avevano dato addosso “ai galantuomini, ammazzandoli tutti, vecchi, donne, fanciulli”. Oscurando simili eventi del Risorgimento, aveva giustamente sostenuto, gli storici non davano un buon servizio al loro Paese, così come i liberali con la pratica del trasformismo.
Il viaggio elettorale di De Sanctis, è un necessario iter storico, perché giova ricordarlo, la conoscenza del nostro passato, è essenziale per
costruire il futuro. La sua testimonianza, pur a distanza di circa un secolo e mezzo, gattopardescamente, offre una drammatica analogia con la situazione attuale, di clientelismo, crescente povertà, perdita di diritti e opportunità, e pertanto stimola numerosi spunti di riflessione per elaborare progetti per il rilancio e il definitivo riscatto del nostro territorio.
Quanto di ciò che invocava De Sanctis, chiedendo le ferrovie, motore di sviluppo, oggi diremmo, più compiutamente le infrastrutture, oppure l’istruzione estesa a tutti, così come il superamento della povertà, si è compiuto dall’unità d’Italia in poi?  L’effetto della crisi che ci attanaglia è, oltre a un considerevole aumento della povertà, una crescente desertificazione dei territori del Sud, in particolare delle zone interne, con l’emigrazione dei più giovani e non solo; un forte regresso, con la perdita di infrastrutture e servizi, come in Irpinia, dove nel giro di pochissimo tempo hanno chiuso fabbriche (Irisbus), tribunali (Santangelo dei Lombardi, Ariano Irpino), tagliato ospedali e assistenza, anche nei suoi livelli essenziali (ADI), tagliato trasporti, e quelli funzionanti, non brillano certo per efficienza e comodità. In tal modo, non solo è stato messo in ginocchio un intero sistema socio-economico, la sopravvivenza stessa della provincia interna del Mezzogiorno, ma anche la sua stessa identità. Dov’è l’Irpinia, dov’è la stessa Campania, e più estesamente dov’è il Sud, che troppo spesso sembra scomparso dai progetti politici? Il problema del Mezzogiorno è vivo ora più che mai, ma non è irrisolvibile: se lo si sa gestire, può rappresentare una grande opportunità. Ripartiamo dunque dal Sud, per troppo tempo vituperato e
sfruttato, difendiamo strenuamente il nostro territorio, non consentiamo più che sia trattato come una discarica, portiamo avanti il progetto di cambiamento delle menti illustri che ci hanno preceduto. Ripartiamo da quel Sud che ha cervelli intelligenti e preparati, gente forte e capace anche di sacrifici, in prospettiva di un miglioramento futuro. Creiamo le condizioni perché il loro sapere e la loro tenacia non emigrino, ma contribuiscano a migliorare la propria terra. Indignarsi non basta, si devono investire energie e capacità, dare valore al merito. Ripartiamo dalle infrastrutture, ripristinando le molte linee ferroviarie dismesse, ad esempio, e abbiniamo il trasporto ferroviario al trasporto integrato: vuol dire opportunità occupazionali, turismo, conoscenza delle nostre zone, migliorare la comunicazione tra città piccole e grandi, migliorare i tempi e l’efficienza della mobilità, ridurre l’inquinamento. Migliorare, in sintesi, la qualità della vita nel rispetto dell’ambiente. Battiamoci per garantire l’assistenza a tutti, riaprire i presidi ospedalieri guidati da professionisti capaci e non espressione di clientele politiche. Battiamoci per far ripristinare, laddove è stata soppressa, l’Assistenza domiciliare integrata. Rilanciamo l’agricoltura, incentivando i nostri prodotti tipici, anzitutto con la formazione professionale, poi destinando fondi ad hoc e incentivando e incoraggiando forme di cooperazione che mirino a ottimizzare produzione e immissione sul mercato. Valorizziamo i nostri prodotti enogastronomici, eccellenze delle nostre terre, promuoviamo forme di energie alternative.
Combattiamo lo spropositato consumo del suolo di questi ultimi decenni con la cementificazione selvaggia, recuperiamo e ridiamo dignità ai nostri centri storici. Non dimentichiamo il nostro prezioso patrimonio storico-archeologico, che troppo spesso noi per primi non conosciamo o sottovalutiamo. Prendiamo esempio dai Paesi del Nord Europa, capaci di valorizzare delle semplici “pietre storiche”, con tanto di didascalie e indicazioni turistiche. Abbiamo siti archeologici che potremmo orgogliosamente mostrare (penso tra i tanti, ad es., ad Aequum Tuticum, citato già da Orazio nel 35 A.C. e prim’ancora da Cicerone come necessario punto di passaggio tra Campania e Puglia), basta restaurali e valorizzarli: sarebbero fonte di turismo, come le eccellenze della ceramica, per aggiungerne un’altra. Difendiamo l’ambiente dall’inaudito dissesto idrogeologico al quale è stato sottoposto, per meri fini speculativi, negli ultimi decenni. Opponiamoci con forza alle trivellazioni petrolifere, che non solo non portano guadagno che alle ditte straniere che le eseguono e non
all’economia locale, ma inquinano terra e acqua, aumentando i rischi sismici e devastando territorio e colture. Diamo incentivi alla scuola pubblica, perché la conoscenza genera emancipazione, crescita e futuro. Emarginiamo il più possibile i diplomifici privati, lottiamo contro il crescente fenomeno della dispersione scolastica. La scuola è un diritto per tutti e come tale, dev’essere una naturale opportunità e pubblica. Ritorniamo a parlare con la gente, soprattutto quella più sfiduciata (disoccupati, precari, cassintegrati, esodati, anziani, emarginati, “rassegnati”), informiamola dei pericoli che corre se diviene vittima del facile populismo, dimostriamo che i nostri valori: etica, morale, trasparenza, sono le nostre colonne portanti. Riavviciniamo le persone alla partecipazione politica attiva, lanciamo iniziative di formazione politica sui territori, dimostriamo con la nostra azione, anche quella quotidiana di ognuno, che la bella politica nel senso più puro, è possibile. Osiamo la speranza e trasmettiamola. Bisogna partire dai sogni, anche nei momenti più bui, quando possono sembrare più utopistici e applicarsi con impegno, perché si realizzino: cambiare si può e una vera Sinistra è in grado di farsi portatrice di questa sfida. SEL può e deve ripartire dal Sud. È una sfida difficile, impegnativa, ma nel contempo esaltante, che SEL è in grado di sostenere. Per dirla con Guido Dorso: “Il Sud non ha bisogno di carità, ma di giustizia, non chiede aiuto, ma libertà. Se il Mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, con la sua libera iniziativa e seguendo l’esempio dei suoi figli
migliori, tutto sarà inutile”. Sta a noi il faticoso, ma anche esaltante compito, di raccogliere questa impegnativa eredità morale e farla fruttare. Facciamoci promotori del cambiamento:ora.