“Ti aiuto io”: l’accoglienza dell’altro in storie di (stra)ordinaria umanità
In una Italia dispersa tra paura, buon senso e altruismo, la storia di Nina dimostra come l'uomo ancora riconosca nell'uomo un suo fratello.
Incontrai Nina alla fermata degli autobus di Napoli, quella adiacente alla stazione, sempre affollata, caotica, sudata dei sudori dei viaggiatori appena scesi dal treno, scossa dagli affanni di quelli che, trafelati, rincorrono l’ultima coincidenza; rumorosa, di persone variopinta, sonora. Il signore al piano si veste del fascino che affascinante rende Napoli e che, malgrado la folla, il caos, i sudori, gli affanni e il rumore, la rende suggestiva e la riscatta.
Nina aveva trent’anni e un solo bagaglio leggero: “sono stata da mia sorella – mi raccontava – Vive a Massa, fa la maestra.” Aveva la pelle dolcemente dorata dal sole della Toscana.
Aspettammo insieme che il pullman arrivasse; mancava ancora un po’ alla partenza; una conversazione semplice, lenta, leggera come il suo bagaglio. “Quale corrispondenza – mi domandai – può mai esserci tra una conversazione e un bagaglio? Sì! – pensai – E’ nel contenuto, nella scelta del poco che è l’essenziale.”
L’autista sembrava un uomo impaziente, aveva l’aria contratta e scontrosa, non sorrideva a nessuno. Io e Nina sedevamo vicine; guardando al di là del finestrino, sorridevamo delle espressioni buffe che la noia, spesso, disegna sui volti. Ne ridemmo, ma solo per qualche istante: ” ‘A scenne, ‘sto biglietto nun è bbuono, tornatenn’ a o paese tuo. (Devi scendere, questo biglietto non è valido, torna al tuo paese.)” L’ autista si rivolgeva a un ragazzo africano, probabilmente, che “io no capire, capo” rispondeva a quegli attacchi. Un viso tondo, grandi occhi attenti e profondi, più eloquenti di qualsiasi discorso da retore; una maglietta viola.
Sono remissive e rassegnate le persone che sanno di non avere poi tanta possibilità di difendersi dal pregiudizio e dal luogo comune; sanno di essere soli, e da soli è difficile abbattere muri, le barriere restano sempre tangibili.
Nina sedeva a quello esterno dei due sediolini che avevamo occupato; in un attimo fu davanti all’autista e, dategli le spalle, si rivolse al ragazzo con la maglietta viola tornato sul marciapiedi: “vieni, ti compro un biglietto.” La reazione polemica dell’uomo dietro di lei non tardò ad arrivare. Più adirato che mai, “oilloco – disse – l’avvocato difensore, che ti criri e fa? Biglietti nu ne tengo, adda i’ a biglietteria. (Ecco l’avvocato difensore, cosa credi di fare? Non ho biglietti, deve andare in biglietteria).
Cinque minuti mancavano alla partenza; Nina porse al ragazzo una banconota da dieci euro perché corresse a comprare il biglietto e pregò che riuscisse a tornare in tempo. Intanto l’autista non smetteva di inveirle contro: “C’a rato riec euro e quann ‘o viri cchiù. (Gli hai dato dieci euro, non lo rivedrai).
All’una in punto il pullman si mise in moto. Il ragazzo non era tornato. Vidi sul viso di Nina i colori del rammarico e della delusione. Immaginai che si sentisse sconfitta e credetti che fosse ancora più indignata per la discussione con l’autista che, ora, pareva gongolare per la soddisfazione. “Eccolo, arriva di corsa”, gridò una passeggera che sedeva in una delle ultime file. Sporgendomi vidi quella maglietta viola, che si avvicinava recuperando il tempo e lo spazio a grandi falcate; anche Nina la vide, e sul suo viso tornò la luce e il colore della gioia e della speranza.
Salito a bordo, il ragazzo la cercò con lo sguardo tra tutti gli sguardi, le si avvicinò porgendole le monete del resto e il “grazie”, ripetuto tre volte, che fu la melodia più bella di quella giornata. L’autista non disse nulla, nessun’ altra parola era necessaria.
Sapevano di aver vinto, lui e lei.
di Eleonora Fattorello