“Eravamo dei grandissimi”: Clemens Meyer racconta il lato oscuro della Germania riunificata

Un romanzo che mette in scena la danza sulle macerie del sogno, perché al di là del Muro l'incubo era in agguato.

ERAVAMO DEI GRANDISSIMI.docx 1L’ultima volta che lo vidi prima che partisse, Rico mi salutò dalla finestra con la mano. Sembrava piccolissimo. Avevo suonato il campanello giù al portone, ma sua madre non mi aveva aperto. Così feci qualche passo indietro sulla strada e guardai in alto verso di lui, portando la mano alla testa come nel saluto dei pionieri. “Sempre pronti” sussurrai. Lassù alla finestra vidi Rico ridere. Solo un attimo, poi si girò e comparve sua madre che tirò le tende. Dietro di me una macchina suonò il clacson. Tornai sul marciapiede e mi avviai verso casa. Discesi la strada fino al parco, mi fermai di nuovo e mi voltai. Riuscivo ancora a vedere la finestra con le tende chiuse al terzo piano. Rico aveva riso quando gli avevo fatto il saluto dei pionieri giù in strada. Aveva riso anche se sarebbe dovuto andare via il mattino dopo all’alba. “Partenza alle sei e mezza” mi aveva detto il giorno prima, “in treno. Forte eh?”, e anche allora aveva cercato di ridere“.

In “Eravamo dei grandissimi”, pubblicato nel 2006 e proposto oggi da Keller nella traduzione di Roberta Gado e Riccardo Gravero, lo scrittore tedesco Clemens Meyer racconta la storia dei ragazzini diventati precocemente adulti con la fine del comunismo, nella Germania riunificata sull’onda della caduta del Muro. “Als wir traumten”, in traduzione letterale “Quando sognavamo”, è il diario di una generazione perduta, quella di Dani, Rico, Mark, Paul e, ancora, Walter e Fred, protagonisti del romanzo, che al di là di quel Muro non trovano il radioso futuro a lungo atteso, ma un presente in cui “la svolta” promessa è piuttosto un incubo e in cui la vita offesa domina il susseguirsi dei giorni, nell’assoluta mancanza di ogni residua utopia. La nuova libertà che improvvisamente si prospetta è solo quella di cercare un barlume di gioia distruggendo se stessi, trasformandosi in teppisti e delinquenti con una vita sregolata fatta di furti e furiose risse, incontri clandestini di boxe, fiumi di birra, automobili distrutte, con l’endemica sfiducia e la rassegnazione di chi considera il carcere nemmeno poi la soluzione peggiore. Sullo sfondo c’è un mondo alla deriva, incapace di arginare lo smarrimento dei ragazzi e, soprattutto, insensibile alla loro feroce richiesta d’aiuto. Un mondo dall’asfissia e dall’immobilismo imperanti, in cui l’amicizia è l’unico legame tenace.

A narrare la storia in prima persona è Daniel Lenz, detto Dani, alter ego dell’autore che, raccontando i bulletti di quel “selvaggio est”, parla della sua stessa esperienza. Nato a Halle, nel profondo oriente tedesco, Meyer rielabora la sua gioventù randagia a Reudnitz, periferia est di Lipsia, un universo paranoico, in cui la trasgressione è lo stesso vangelo che in Trainspotting di Welsh. Esordito, trentenne, nel 2006, Meyer diventò in seguito uno degli autori più amati della sua generazione e, forse, il più talentuoso degli scrittori post Muro emersi negli anni Duemila. Candidato quest’anno al Premio Salerno libro d’Europa, con un linguaggio chiaro, essenziale e in molti passaggi commovente, Meyer dà vita a una prosa durissima e toccante, che tortura il lettore e paradossalmente lo conquista, obbligandolo a confrontarsi con realtà estreme difficilmente sperimentate. Su “Alias”, supplemento culturale de “Il Manifesto”, leggiamo, a tal proposito, che “Dieci anni fa, al momento della sua apparizione, il libro rivelò a una Germania ancora dedita a coltivare la sua immagine di terra unificata e florida, la vita violenta delle bande di adolescenti dell’est negli anni a cavallo della caduta del muro: illustrò la realtà criminale, tossica, indifferente a tutto di quei desperados”.

La narrazione per capitoli giustapposti vede Meyer muoversi continuamente avanti e indietro nel tempo, alternare capitoli che raccontano la formazione dei protagonisti nell’ambiente cupo e restrittivo di una scuola di Lipsia subito prima della riunificazione delle due Germanie, a capitoli in cui, diventati adolescenti, i ragazzini di un tempo si sono ormai trasformati in una banda di quartiere dedita con appassionata convinzione a distruggere tutto e ad autodistruggersi. Così facendo, Meyer trasforma quel Muro, di cui non parla mai, nella metafora della linea di confine che separa infanzia ribelle e adolescenza rabbiosa così come divide passato e presente della Germania.

Era strano andare in macchina con lui (Fred) perché quasi non ci stavamo tant’era piena di lattine di birra sparse dappertutto, e quando eravamo in giro insieme combinavamo le robe più folli. Non so cosa ci prendesse quando salivamo con lui, qualcosa che ci faceva mollare ogni freno, sentivamo dentro una libertà totale e un’indipendenza ancora sconosciuta che sfogavamo urlando come animali” dice Dani. “Ogni tanto facevamo surf in piedi sul bordo del finestrino abbassato, aggrappati al tetto con una mano. Non c’è notte in cui non sogni queste cose, e di giorno mi ballano in testa i ricordi, e mi tormento a chiedermi perché tutto è andato come è andato”.

 

di Eleonora Fattorello

Source: www.irpinia24.it